This article presents the results of an ethnography carried out in Lampedusa – a fundamental hub in the border spectacle of irregular migrations – during the COVID-19 emergency, where landings have increased, especially from Tunisia. Through fieldwork and interviews to local key actors, the research aims to answer the following intertwined questions: how does migrant agency develop? How is the borderwork reinvented? How do different local groups and authorities act, react, and interact with migrant agency and borderwork? These questions are addressed, scrutinizing three steps of a migrants’ corridor towards Europe: firstly, the landings and their social fabrication around the piers; secondly, the hole and the confinement fences on the hotspot-island; thirdly, the forced return to sea on the quarantine ships. In this way, the article shows how the pandemic becomes a constituent moment in border policies, devices and procedures, opening up a reinforced space–time of migrants’ containment.
Abstract [IT]
Questo articolo presenta i risultati di un’etnografia, realizzata durante l’emergenza COVID-19, a Lampedusa – snodo fondamentale nello spettacolo del confine delle migrazioni irregolari – dove sono aumentati gli sbarchi, soprattutto dalla Tunisia. Attraverso un lavoro di ricerca sul campo e una serie di interviste ad attori chiave locali, la ricerca vuole rispondere a una serie di domande intrecciate tra loro: come si sviluppa l’agency dei migranti? Come si reinventa il confine? In che modo i diversi gruppi e le autorità locali agiscono, reagiscono e interagiscono con l’agency dei migranti e il borderwork? Queste domande vengono affrontate, scrutando tre passaggi di un corridoio migratorio verso l’Europa: in primo luogo, gli sbarchi e la loro fabbricazione sociale intorno ai moli; in secondo luogo, il buco e le recinzioni di confinamento sull’isola-hotspot; terzo, il ritorno forzato in mare sulle navi-quarantena. In questo modo, l’articolo mostra come la pandemia diventi un momento costitutivo delle politiche, dei dispositivi e delle procedure di frontiera, aprendo uno spazio-tempo rafforzato di contenimento dei migranti.
Luca Giliberti & Luca Queirolo Palmas (2021) The hole, the corridor and the landings: reframing Lampedusa through the COVID-19 emergency, Ethnic and Racial Studies, DOI: 10.1080/01419870.2021.1953558
“Confini, mobilità e migrazioni“, una nuova pubblicazione di Agenzia X sul tema delle migrazioni.
Tra il 2011 e il 2019, una serie di processi e avvenimenti di portata globale ha violentemente destabilizzato l’architettura dei confini esterni e interni dell’Unione Europea, contribuendo a rafforzare l’immagine di un territorio sigillato.
Ma in realtà la “fortezza Europa” è continuamente sfidata dalle pratiche di mobilità dei migranti, oltre che smentita da una porosità interna tesa a garantire forme d’inclusione differenziale ai nuovi lavoratori a basso costo. Se da una parte assistiamo alla proliferazione di barriere, centri di detenzione, deportazioni aeree e respingimenti in mare finalizzati a governare e selezionare i flussi, dall’altra sono le pratiche di solidarietà e di autorganizzazione dei migranti a emergere e a contestare lo spettacolo del confine.
Questo volume si propone di tracciare una cartografia aggiornata dello spazio europeo attraverso una serie di resoconti etnografici realizzati in diversi luoghi di frontiera, alle porte e nel cuore dell’Europa: gli hotspot, Calais, Ventimiglia, Ceuta e Melilla, i Balcani e Strasburgo.
Un libro a cura di Lorenzo Navone, con contributi di Jacopo Anderlini, Étienne Balibar, Geremia Cometti, Paolo Cuttitta, Jean-Baptiste Eczet, Fabrizio Foschini, Luca Giliberti, Charles Heller, Carolina Kobelinsky, Claudia Moatti, Lorenzo Pezzani, Anaïk Pian, Luca Queirolo Palmas, Federico Rahola, Maurice Stierl, Simona Tersigni, William Walters
Après une période de suspension liée à la propagation de la pandémie “Eufemia“, le projet du collectif artistique Milotta & Donchev trouve un nouveau lieu d’exposition à l’université de la Côte d’Azur.
L’exposition fera l’objet de nombreuses manifestations académiques et publiques, telles que des masters, des conférences sur la sociologie visuelle, des tables rondes liées à la sortie de livres sur la migration, des visites scolaires, des films-débats, etc.
L’installation, située à Université Côte d’Azur, hall de la MSHS (25 avenue François Mitterrand 06300 Nice) sera ouverte du 22 juin au 15 novembre 2021.
Dopo un periodo di sospensione legato alla diffusione della pandemia, “Eufemia” il progetto del collettivo artistico Milotta & Donchev trova una nuova sede di esposizione presso l’Università della Costa Azzurra. La mostra sarà al centro di numerosi eventi accademici e pubblici, come master, conferenze di sociologia visuale, tavole rotonde relative all’uscita di libri sulle migrazioni, visite scolastiche, dibattiti cinematografici, ecc. L’evento della sua inaugurazione che si terrà il 22 giugno alle ore 18:30, accompagna le colloque international “Tri migratoire et expérience du blocage: Afrique, Amériques, Europe“.
L’installazione, collocata presso l’Université Côte d’Azur, hall de la MSHS (25 avenue François Mitterrand 06300 Nice) sarà visitabile dal 22 giugno al 15 novembre 2021.
In un comunicato stampa dell’11 ottobre (Six Years Alarm Phone. The Struggle at Sea Continues), Alarm Phone – la hotline interamente gestita da volontari e attivisti che riceve chiamate di emergenza da parte di profughi e rifugiati in difficoltà nel Mediterraneo – si domanda retoricamente: “che cosa sarebbe oggi il mare senza Alarm Phone, che è diventato parte della ferrovia sotterranea?” Il riferimento alla rete di assistenza alla fuga degli schiavi negli Stati Uniti prima della guerra civile (recentemente al centro di un bel romanzo di Colson Whitehead, appunto intitolato La ferrovia sotterranea) è in realtà diffuso da ormai diversi anni all’interno dei movimenti che si battono a fianco dei migranti e contro i confini esterni e interni europei.
Non sfuggono a nessuno le differenze tra la condizione degli schiavi nel Sud degli Stati Uniti e quelle dei migranti (differenze spesso cancellate nelle retoriche sulla “tratta” e sulle “nuove schiavitù”). Come ha scritto recentemente Maurice Stierl, uno dei fondatori di Alarm Phone, si tratta piuttosto di valorizzare il momento della rivolta che ha accompagnato l’intera storia della schiavitù atlantica e di prendere le mosse dai momenti in cui schiavi e migranti “hanno messo in atto percorsi di fuga verso un luogo percepito come uno spazio di libertà”. Lungo questi percorsi schiavi e migranti si sono imbattuti in una molteplicità di confini e limiti, ma hanno anche incontrato solidarietà e aiuto al passaggio.
Il libro di Luca Queirolo Palmas e Federico Rahola, Underground Europe. Lungo le rotte migranti (Meltemi, pp. 479, 25 euro), si propone per la prima volta di sistematizzare il parallelo tra le esperienze abolizioniste negli Stati Uniti di metà Ottocento e l’insieme delle pratiche di solidarietà che disseminano le “rotte migranti” in direzione e all’interno dell’Europa di “stazioni” di quella che può essere considerata una nuova ferrovia sotterranea. È un libro per molti versi straordinario, capace di combinare storiografia ed etnografia con l’impegno militante e destinato a diventare un classico negli studi sulle migrazioni e sui confini.
L’obiettivo di Queirolo Palmas e Rahola non è quello di proporre “una vera e propria comparazione”, ma piuttosto quello di evocare – nella prima parte – i tratti fondamentali di un’esperienza storica di lotta abolizionista per farli risuonare – nella seconda parte – in un tentativo di censire “le istanze di libertà che percorrono oggi il vecchio continente”, materialmente incarnate nei movimenti di profughi e migranti. Gli abolizionisti sottolineavano, per citare un libro del 1856 di Benjamin Drew (The Refugee)su cui gli autori si soffermano a lungo, il “naturale desiderio di libertà” degli schiavi, che “la paura e la forza” si rivelano inadeguate a contenere. Ne risultava una politicizzazione della fuga che gli autori proiettano sulle migrazioni contemporanee.
La storia della ferrovia sotterranea è del resto una storia contesa. La sua indubbia realtà si intreccia con l’immaginazione, che ne ha fatto prima di tutto nelle piantagioni un mito nutrito dal desiderio di liberazione degli schiavi. La sua estensione geografica e la distribuzione delle sue “stazioni” restano elusive – tanto che disegnarne una mappa risulta un esercizio impossibile, esattamente come è impossibile segnare sulla carta geografica dell’Europa le rotte della migrazione e della solidarietà. Al più si può pensare a una serie di “retro-azioni” e “contro-mappe”.
Una cosa tuttavia è certa per quel che riguarda la ferrovia sotterranea storica: come ha ormai dimostrato la storiografia radicale nera, la rete di solidarietà degli abolizionisti era saldamente impiantata nel protagonismo nero, tanto in quello degli schiavi in fuga quanto in quello delle comunità nere del nord. È un punto fondamentale, che Queirolo Palmas e Rahola proiettano nel presente liquidando ogni immagine – ingenuamente “umanitaria” – del migrante come pura vittima. In ogni stazione del viaggio che siamo invitati a percorrere nella seconda parte del libro (a Calais come a Ventimiglia, a Ceuta e Melilla come a Parigi, ad Atene come a Pozzallo) incontriamo straordinarie figure di migranti capaci di costruire un tessuto materiale di resistenza che costituisce il riferimento fondamentale per pratiche di resistenza che coinvolgono attivisti ma anche persone comuni.
Underground Europe non si occupa specificamente dell’attraversamento del confine marittimo nel Mediterraneo. Segue profughi e migranti nei loro spostamenti dopo il momento dello sbarco (che viene raccontato con grande efficacia nel capitolo su Pozzallo). In questione in questo libro sono dunque i confini interni di un’Europa che, riprendendo un’indicazione di Étienne Balibar, si presenta qui come borderland, “terra di confine”. Queirolo Palmas e Rahola si concentrano su una formula centrale nella governance europea delle migrazioni, ovvero “mobilità secondaria”, gli spostamenti non autorizzati dei migranti e dei profughi dal primo Paese di arrivo. E propongono due concetti – messi a fuoco nell’analisi della ferrovia sotterranea negli Stati Uniti dell’Ottocento – per analizzare e comprendere il funzionamento della governance delle migrazioni: “guinzaglio” e “strappi”. La pretesa di indirizzare e contenere la mobilità appare in questa prospettiva sempre come una reazione alla materialità e alla possibilità di uno “strappo” – a una pratica di libertà.
Di questi concetti gli autori danno molte esemplificazioni nella seconda parte del libro, ad esempio a proposito di Ceuta e Melilla, dove varcare le prime mura “significa farsi agganciare da un guinzaglio istituzionale” che punta a trattenere il migrante all’interno dell’exclave, mentre strappare il guinzaglio consiste nel trovare il modo più rapido per raggiungere la Spagna e continuare il viaggio. Il rapporto tra guinzaglio e strappo si dispiega del resto in tutti i luoghi analizzati in Underground Europe, che sono anche siti centrali nella geografia del controllo delle migrazioni (fatta di “isole confino” e “città ostili”).
Si diceva dell’impegno militante che sostiene il lavoro di Queirolo Palmas e Rahola, evidente nella complicità che rivendicano con profughi e migranti e con le reti di solidarietà che li sostengono. Troviamo del resto nel libro anche un insieme di riflessioni di carattere teorico-politico, decisamente preziose per un ripensamento della solidarietà e dell’attivismo attorno a migrazioni e confini. Il termine che ricorre insistentemente per definire le alleanze e convergenze che lasciano intravedere una ferrovia sotterranea in Europa è “coalizione”: parrocchiani e fedeli delle moschee, studenti erasmus e scout, collettivi noborder e centri sociali, volontari delle ONG, medici, infermieri sono tra i soggetti che si impegnano per garantire il passaggio (con una “egemonica presenza femminile”, come viene opportunamente ricordato).
Piace pensare che si possa qui vedere un altro parallelo con la storia dei neri negli Stati Uniti, che cioè questa coalizione prefiguri qualcosa di simile a quella che W.E.B. Du Bois (in un libro del 1935 dedicato alla “ricostruzione” negli Stati del Sud dopo la guerra civile) chiamava “democrazia abolizionista”, ovvero un nuovo spazio politico aperto dall’insorgenza (dallo “sciopero generale”) degli schiavi. Muovere in questa direzione significa dare una risposta alla domanda “sul possibile significato, oggi, dell’abolizionismo” formulata all’inizio del libro – una risposta, vale la pena di notare, che sono in molti a cercare di articolare negli Stati Uniti di oggi, dove sotto l’impulso originario di Angela Davis l’abolizionismo e la democrazia abolizionista sono oggi strumenti teorici e politici impiegati in riferimento a una molteplicità di temi, dal carcere al muro di confine con il Messico. Altre risonanze, con cui dialoga il libro di Queirolo Palmas e Rahola.